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Imago Dalmatiae. Itinerari di viaggio dal Medioevo al Novecento

Zara

"Il piroscafo, varcata Puntadura, entra nel canale di Zara; a un'ora e mezzo di distanza si discernono i profili della capitale della Dalmazia. […]. Il vapore si avanza lentamente tra le isole verdi. Adesso Zara è di fronte: dietro le mura che ancora la cingono si slanciano nello spazio snelli campanili, in mezzo ai quali spicca la candida torre del Duomo: un alito di città antica, che pervade e soverchia la città moderna, vibra incontro al piroscafo. […].

L'approdo alla Riva vecchia è certo più pittoresco che l'approdo alla Riva nuova. L'impressione che lo straniero ne ritrae è immediata e precisa. Di fronte sorgono le mura grigie, chiazzate di ciuffi d'erbe selvatiche: la poderosità della costruzione appare subito che si getti un'occhiata nell'andito profondo della Porta Marina: bene dovevano resistere esse ai macigni e alle palle infocate dei nemici.

Sino a pochi anni fa la città era tutta rinchiusa fieramente nel suo perizona di pietra: i vecchi la rammentano irta di bastioni come i veneziani l'avevano abbandonata agli austriaci e i francesi tolta all'impero e gli austriaci strappata ai francesi: solo nel 1868 le mura furono disarmate e il mare fu aperto ai liberi commerci. Poi l'infittirsi della popolazione, la necessità di nuove vie, il bisogno di respirare meglio e di godersi meglio il sole, consigliarono di abbattere dove era possibile le opere di fortificazione inalzate dalla Serenissima. Ma Zara, lanciata nel mare come uno sprone ad affermarvi la signoria latina, era città di pugna e tale rimase. […]. Sopra le mura, donde nei tempi lontani i soldati di San Marco scrutavano il mare, passeggiano adesso gli oziosi e, a notte, si danno convegno gli imiamorati. Negli ampi viali, tra lo stormire degli ippocastani e delle acacie, è dolce scambiare promesse e sospiri! Dirimpetto alla città si adagiano nel soffice letto fiorito villini e fabbriche con le finestre spalancate al maestrale; è il Barcagno, altra volta campagna brulla ed ora quartiere prediletto degli zaratini: la striscia di terra si assottiglia e sfuma nella penisoletta dal bel nome di Punt'Amica. Dietro il Barcagno, nello spazio luminoso, le montagne di Croazia stanno quasi tetti di cristallo ravvolti in nubi perlacee.

Nella Riva vecchia s'agita la febbre della città marinara: navi caricano e scaricano merci e passeggeri; corrono gabellieri e battellieri; trabaccoli chioggiotti stendono le reti alla brezza e golette delle Marche sbarcano frutta ed erbaggi; il vaporino del Barcagno va dall'una all'altra sponda in mezzo al vociare dei marinai e al chiacchiericcio delle donne; vecchi e ragazzi affaccendano il loro riposo nella vista di quella operosità meridionale: il sole abbaglia e ride. Il forestiero si avvia verso la Porta Marina ed entra dove pulsa più forte il cuore della città, onde può coglierne subito le molte vibrazioni e le molte sensazioni, della città che è una leggiadra miniatura di Venezia, senza i ponti e senza i canali, poiché in nessun altra terra di Dalmazia la Dominante stampò orma così profonda nelle pietre e negli animi.

Le vie strette, a volte di modo che due persone insieme vi camminano a stento, sono fiancheggiate di case e di palazzetti anneriti dai secoli; nei «campieli» cianciano le donne in un veneziano ricco di forme e di vocaboli oggi morti nella sua culla stessa e di cadenze piene di languore; le piazze sono ombreggiate di monumenti disegnati nella svelta architettura della città delle lagune; ogni edificio e ogni palpito e ogni costumanza degli abitanti hanno riscontro nella Roma dell'Adriatico. Dalla Piazzetta Marina si giunge in breve nella Via Santa Maria, brulicante, alla mattina, di una folla variopinta e rumorosa. Sono impiegati che vanno al lavoro, fanciulli che vanno a scuola, contadini scesi dai villaggi a far provviste, fantesche, carri e carretti che ingombrano la «calle» in cui si va a fatica, dando e pigliando gomitate; s'odono grida di macellai, di facchini, di monelli; passano nell'aria odori di carnumi e di vino e di cavoli acidi; è un tripudio, un clamore, una baldoria indescrivibile. La Piazza dell'Erbe è a pochi passi: il silenzio del palazzo arcivescovile che ne chiude un lato è rotto dal baccano delle rivendugliole e dei compratori: sino alle dieci del mattino c'è uno schiamazzo da fiera fra i banchi carichi di frutta, di insalata, di sedani, di erbaggi, e i banchi dei venditori di giocattoli, di fazzoletti, di merletti, di forcine, di mille cose svariatissime: s'intrecciano dialoghi a voce alta e vi zampilla il brio particolare agli zaratini. […].

Dalle dieci al pomeriggio, del resto, buona parte della città sembra morta: la vita si è ritirata negli uffici, numerosissimi, nelle botteghe degli artigiani, nelle case: si rianima un po' alle due, quando gli impiegati escono per la passeggiatina che precede il desinare, ma non riprende d'intensità che al tramonto. Allora Zara invade le «calli». La Riva Nuova è il convegno favorito delle signore: […]. Dalla Riva Nuova la folla continua la passeggiata lungo il viale che corre sulle mura; si arresta un istante a guardare i bimbi che sfarfallano nel giardinetto Wagner e ricerca i silenzi discreti del Giardino pubblico. Quindi, da Piazza della Colonna, muove verso la Piazza dei Signori, centro della vita civile e intellettuale della città, col Municipio e con la Loggia trasformata a biblioteca, e da questa nella Calle Larga, che male risponde al suo nome poiché, in certi punti, un carro l'asserraglia. Ma Zara non sarebbe Zara ove non avesse la Calle Larga, emula della Merceria, sempre affollata, sempre sonante, sempre a festa, dove, nei secoli della Serenissima, le zentildone si fermavano ad ammirare, dinanzi ai negozi, le bambole vestite secondo l'ultimo figurino di Venezia e a parlottare con i nobilomini, e dove culmina oggi la vita cittadina nello sue manifestazioni più semplici e più complesse, nelle cerimonie pubbliche e nelle cerimonie private, nella gioia e nel dolore, nel baccanale carnevalesco e nelle esplosioni dell'anima nazionale. Quivi folleggia il martedì grasso […]; quivi passa la processione del venerdì santo […]; quivi si snoda la processione del Corpusdomini […]; quivi procedono ogni giorno lieti cortei nuziali e tristi accompagnamenti funebri. […]; il Caffè Centrale, scintillante di specchi e di lampadari, ampio e dorato come una sala da ballo, è il ritrovo favorito delle famiglie: di estate dai finestroni aperti si riversano nella via fasci di luce e bisbiglio mondano; d'inverno un'orchestrina o la banda suona a gioia del pubblico amante della buona musica; mentre giù la folla serpeggia beatamente, trillando e ridendo, dai poggioli corrono saluti, arguzie, occhiate vivide e, se la via fosse un tantino più sottile, potrebbero correre strette di mano e baci.

Le anime solitarie preferiscono a queste passeggiate vespertine i silenzi mattutini del Giardino pubblico e le ombre profonde del Bosco dei Pini e del Parco. […]. Il Forte, che il governatore Blazekovich trasformò nel Parco odierno, fu edificato al tempo del provveditore Antonio Bernardo, nella prima metà del seicento: ostentava allora tutta la fierezza della mezzaluna, delle opere interne e dei quattro quartieri formicolanti di guardie e di ufficiali" (pp. 6-15).

"Zara non è solo veneziana nei suoi monumenti, nelle calli, nei palazzi, nelle case: è veneziana benanco nelle manifestazioni della vita pubblica e nelle manifestazioni della vita privata, nei costumi e nel cuore dei cittadini, intimamente, immutabilmente. […]. Siora Zanze e siora Anzoleta e siora Checchina pettegoleggiano con limpide facezie lagunari, come pettegoleggiano le loro sorelle della riva opposta; gli uomini sono vivaci, arditi, intelligenti, pronti alla parola più presto che alla rissa, come i loro fratelli dell'altra sponda; i monelli hanno nel sangue l'argento vivo e nel cervello un semenzaio di tiri lepidi come i loro coetanei di Venezia. Ma la somiglianza, o, meglio, l'eguaglianza di temperamento e di pensiero degli abitanti delle due città si rileva sopratutto intorno ai pozzi e, più particolarmente, intorno ai cinque pozzi costruiti l'uno accanto all'altro nella piazza cui danno il nome. Mentre le secchie scendono cigolando e salgono stridendo, le fantesche - le massere - tagliano i panni addosso ai padroni e le donnicciole commentano con un fiume di parole volubili le vicende dell'ora. […]. Il pozzo e le feste: gioie del popolo. La fiera di San Simeone, sopratutto. Si celebra essa l'8 di ottobre. […]. Il pellegrinaggio dei devoti dura sino a tarda ora; è nella chiesa un pigia pigia continuo: […]. 

La Madonna d'agosto è, a sua volta, festeggiata con gite a Bellafusa, di là del Barcagno, per vedere la processione snodarsi con macchie di rosso, di verde, di giallo attraverso i campi dorati e per mangiare gli enormi cocomeri tricolorati; meglio che la giornata della Vergine potrebbe dirsi, quella, la giornata delle scorpacciate. Del resto, ogni festa ha la sua pagina speciale nel libro della cucina: guai se la sera di Natale non ci fosse sul desco famigliare il brodetto con le verze, se il venerdì dell'ultima settimana di carnovale non fosse accompagnato da una mangiata di gnocchi, se il Martedì grasso non fosse sacro ai maccheroni: gli zaratini si sentirebbero meno zaratini e meno veneziani! E guai ancora se nelle case dei ricchi e negli abitini dei poveri non ci fosse tutto l'anno, ben ravvolta nella zimarra di paglia, almeno una bottiglia di «rosolio maraschino»! Il prosecco di Almissa, la vugava della Brazza, la malvasia di Ragusa, la maraschina di Sebenico, il peceno di Sabioncello, il marzemino delle Castella hanno fama locale come il miele di Solta, i fichi di Lesina e i datteri di Lissa: sono poetucoli ignoti fuor della loro casa: ma il rosolio di Zara ha celebrità mondiale: stampa il suo nome nella sesta o nell'ottava pagina di tutti i grandi giornali, vince il premio nella gara del poliglottismo, è più letto degli autori più illustri; va sino in America e in Australia a incendiare le vene di chi sente la nostalgia degli aromi, del fuoco e del cielo del Mezzogiorno. […]. 

Gli zaratini sono tutti campanilisti, ma nel significato migliore della parola: […]. L'amano e la vogliono italiana e la mantengono italiana. La fede nella nazionalità, che nelle altre terre italiane è fiamma, a Zara è incendio. «In questo tempio dell'arte — Confortati dal voto e dal plauso di tutte parti di Dalmazia — il XXX novembre MDCCCXC — Convennero — duemila cittadini di Zara — a tutela dell'avita lingua e civiltà italica» dice una lapide murata nell'atrio del Teatro Nuovo a rammentare una tra le molte vicende della battaglia quotidiana dei cittadini contro i croati e i favoreggiatori dei croati. Nessuna città italiana soggetta all'Austria più generosamente di Zara, con maggior sacrificio e con maggior virtù, conforta l'opera della Lega Nazionale, che dà scuole italiane al popolo italiano cui la furia nemica le nega. […]. Questa carità del luogo nativo è una tra le cause principali del costante progredire di Zara. Non dà essa, forse, impeto nuovo ai grandi lavori che, da un trentennio (podestà prima Nicolò de Trigari e nel nostro tempo Luigi Ziliotto) lanciano la città alla conquista della campagna, a stendere le sue braccia dove sono orti e prati, a popolarli di case e di opifici? […].

A volte, certo, l'architettura nuova, irrispettosa del carattere e del colore di Zara, getta nelle «calli» venezianesche edifici troppo moderni, troppo massicci, troppo crudi a schiacciare la delicata signorilità dei palazzi antichi, ma la colpa è del secolo meglio che degli uomini. Così, proprio l'istituto di S. Demetrio, enorme macchia candida rompente l'armonia di linea e di colore a specchio del mare: pur, se esterno non ci appaga, l'interno è nobile di disegno e vago di decorazioni e la sala maggiore, a ornati e a sculture dell'artista triestino Giovanni Marin, è tra le più squisite di proporzioni, di sobrietà e di solennità di Dalmazia; così, opera questa del Governo, il Palazzo di Giustizia, invadente con la sua mole in stile fra di Rinascimento tedesco, di caserma e di tappezzeria, il cuore medesimo della città. Macchie bianche, le quali ci fanno ammirare ancor più i vecchi monumenti antichi, tutti patina di secoli e candore di poesia!" (pp. 17-24).

"Il tempo dei grandi rivolgimenti si chiuse così, melanconicamente. Ma non il tempo delle lotte. La città di guerra non mutò destino: rimase città di guerra: le battaglie che combatte oggi hanno segno sacro. Intorno è gran tristezza, ma essa è un'ara che manda luce altissima, fiamma che arde e non si consuma. La Serenissima, morendo, le lasciò tale impronta in ogni campo del pensiero che nessuna vicenda di uomini e di cose potè, non che cancellarla, sminuirla. Ovunque si volga l'occhio, ai monumenti che gettano la loro ombra sulle piazze superbe o alle case del popolo nelle umili vie, nell'interno dei palazzi o nell'interno delle chiese, è il trionfo di Venezia che ci muove e ci commuove; il trionfo di Venezia, gloriosa nelle armi e nella pace, nell'educare genti a civiltà e cuori a fierezza. Ah, non invano il doge, affidando alle acque l'anello maritale, diceva: Desponsamus te, mare, in signum veri perpetuique dominii: ah, non invano!" (p. 122).