Ragusa
"Nel 1808, il generale francese Marmont, con un ukaz imperiale, dichiara sciolta e sepolta la repubblica ragusea, dopo tanti secoli di brillante esistenza. Fu un capriccio di Napoleone. […]. D'allora, Ragusa mai più risorse allo splendore antico: la sua stella era tramontata per sempre. […]. È lecito ammettere che la sola città di Ragusa, nei tempi del suo maggior splendore, contasse da 30 a 40,000 abitanti. Oggidì ne conta poco più di 5,000" (p. 261).
"Fino al giorno d'oggi rifulgono a Ragusa le sue antiche tradizioni di nobiltà, nel tratto, nel sentire, nella coltura intellettuale dei suoi cittadini. È di prammatica, almeno in Dalmazia, quando si parla di un raguseo, di aggiungere il qualificativo di «nobile». E non solo i cittadini di Ragusa, ma i popolani sfoggiano tanta finezza di modi, tanta eleganza di linguaggio, tanta distinzione di forma, che sarete imbarazzati ad impartire ordini alla cameriera che vi servirà all'hôtel, o al facchino che vi offrirà, nel porto di Gravosa, i suoi servizi. «Scusi, signore, ha forse qualche ordine?» — così vi si presentano i facchini di Ragusa, parlando, accanto alla loro madrelingua slava, un italiano purissimo. In verità, la storia locale di Ragusa rasenta, per molti titoli, il poema. Dalle rive della Croazia al capo Taineros, in Grecia, fu il solo paese che, in mezzo a confusioni sterminate, a cangiamenti repentini e frequenti di dominio, abbia saputo mantenere una posizione privilegiata di libertà, d'indipendenza individuale. […]. Fino ai giorni nostri, aleggia nell'ambiente raguseo un'intonazione riservata, accorta, prudente; anche gli odierni ragusei, sono fini diplomatici e, in generale, oratori eloquenti e persuasivi. Essi fanno onore tuttora alla loro fama. […]. Più luminosa ancora la vita morale ed intellettuale di Ragusa, nei suoi 12 secoli di floridezza politica. Accennerò ad un solo fatto eloquentemente illustrativo. In Inghilterra, appena nel 1807, per opera di Pitt e Fox, veniva sancita la legge contro il traffico degli schiavi, e l'Europa civile ne sussultò di gioia. Nella piccola repubblica di Ragusa il traffico degli schiavi veniva abolito, con atto del Consiglio maggiore, il 26 gennaio 1416, ossia quattro secoli prima che nell'illustre Albione. Voglio riprodurre quell'atto tanto celebre negli annali della civiltà umana […]. — Ragusa risplende come una stella di prima grandezza nella storia generale del progresso umano" (pp. 263-264 e 266).
"Inoltratevi pure nello stradone. Vi sorprenderete molto di non trovarvi la scritta: «Soggiorno della pace». Ragusa sembra un quartiere di Venezia: ne ha la stessa intonazione di tranquilla mestizia, di dolce sentimentalità. In alcuni laboratorii troverete ancora gli orafi, pronipoti dei celebri orafi ragusei. Ma nelle loro mostre non vedrete più nè corone reali nè diademi principeschi, come ai tempi d'oro della repubblica. Pure il lavoro di filigrana, nell'odierna Ragusa, afferma le sue brillanti tradizioni e voi facilmente sarete tentati a farne qualche acquisto. Quasi tutte le vie secondarie della città, scendendo da erti pendii, fanno capo allo stradone. […]. Ma non tralascierete di visitare la via Priko, parallela allo stradone. «In essa — vi racconteranno i ragusei — abitavano, nell'epoca florida della repubblica, i più ricchi negozianti ed armatori. Era la via dell'oro. Allora, sul posto dell'attuale stradone, era un braccio di mare; la prima fila di palazzi non esistendo, i bastimenti carichi di mercanzie si ancoravano fin sotto i ricchi fondachi. Si calcola che, in una certa epoca, i negozianti di Priko avrebbero potuto radunare fra loro cento milioni di ducati». Tempi passati: ora Priko è un quartiere povero, dove non vive la parte più agiata della cittadinanza. […]. In alcuni negozi dello stradone si lavorano i costumi nazionali, ricamati con seta ed oro. Costano somme ingenti e vengono trasmessi da padre in figlio, come un oggetto prezioso di famiglia.
In fondo, lo stradone fa capo alla seconda porta, l'orientale, che conduce al borgo Ploce. A sinistra è la dogana monumentale, a destra la piazza principale, decorata dalla statua di Orlando e fiancheggiata dal bellissimo palazzo comunale, dal teatro comunale, dal più elegante caffè di Ragusa; indi da altri tre monumenti rimarchevoli, la cattedrale, la chiesa di San Biagio e il palazzo ducale, chiamato così erroneamente, dal momento che Ragusa non aveva il doge, ma il rettore. Dalla piazza Grande passiamo alla piazza delle Erbe, dove di mattina, si concentrano le lindissime paesane dei dintorni coi loro erbaggi, con le loro ortaglie, coi loro cesti di pane. Destano ammirazione per la pulizia della persona e per il loro tratto gentile. E, ciò che non guasta, quasi tutte sono avvenenti. Trovate tra loro tipi che Raffaello avrebbe preso per modello delle sue geniali concezioni.
La piazza è contornata da edifizi moderni: c'è il palazzo de' Caboga, antica nobiltà ragusea, il di cui ultimo rampollo però parla a preferenza, coi suoi amici, pure nobili ragusei, la lingua tedesca! C'è il palazzo del negoziante ed armatore Nicolò Boscovich, un raguseo geniale ed oltremodo simpatico, attivo, intelligentissimo: egli rappresenta l'antico splendore di Ragusa nelle sue più belle manifestazioni. Mi affretto a salutarlo nel suo studio, per chiedergli qualche dettaglio sulla vita economica moderna della sua città nativa. — I nostri commerci languono — mi dice, — specialmente dopo l'occupazione austriaca dell'Erzegovina. Prima, Ragusa lavorava molto con quella provincia e col governo ottomano. Ora tutte quelle risorse mancano. Mancano pure le risorse provenienti dal commercio di Ragusa con le sue grandi isole storiche, le quali oggimai non ricorrono più a Ragusa, come al centro dei loro affari. Tutte, più o meno, essendosi emancipate, vivono d'una vita economica e commerciale indipendente. Con lo splendore politico di Ragusa ne decadde pure lo splendore economico e commerciale: la politica e il commercio essendo due manifestazioni della vita pubblica che in ogni paese si completano, sorreggendosi vicendevolmente... La nostra marina a vela ebbe le stesse sorti de' nostri commerci: è in completa rovina. La grande società marittima che aveva slanciato parecchi grossi velieri, dovette recentemente liquidare. I nostri cantieri sono muti come tombe. L'industria dei molini ad acqua dà scarsi e contrastati guadagni. Il nostro ceto campagnuolo ritrae i mezzi di sussistenza dall'olio, ricercatissimo in commercio e, da alcuni anni, dalla coltivazione del grisantemo.
— Come progredisce la vostra Società di navigazione a vapore? — Ne sono contento. Per la linea Trieste-Spalato-Ragusa-Bari-Molfetta-Brindisi abbiamo tre piroscafi: l'Epidauro, l'Arrigo e il Dubrovnik. Per la linea fra Trieste e Scutari, con porti intermezzi, abbiamo il Bojana; e il Cavtat fa la linea Ragusa-Stagno. Abbiamo in progetto altri due piroscafi per inaugurare altre linee. In fine, per iniziativa del nostro simpaticissimo socio, Giovanni Goich, tanto benemerito della nostra Società, s'è slanciato recentemente nel gran mondo marittimo l'Oscar, un piroscafo di 2000 tonnellate, che promette bene. — Insomma, si progredisce... — Ci fosse un po' più di slancio e d'iniziativa nella nostra aristocrazia del denaro, si potrebbe tentare un risorgimento commerciale e marittimo del paese, il quale, conviene notare, è molto impressionato da antiche e recenti sventure pubbliche. Detto ciò, mi regalò una rosa. Questo dettaglio non entra affatto nelle considerazioni d'ordine economico. Non è un documento illustrativo storico. Ma io lo registro, perchè non vidi mai una rosa più grande, più bella, più odorosa: formava da sola un bouquet. — Sono rose delle vostre serre? — No, ne abbiamo boschi intieri nella vallata d'Ombla, a Gionchetto, a Mokoscizza. Io la battezzai la «rosa di Ragusa», […].
Fuori porta Ploce, […] sulla strada, non è raro incontrare contadine dei dintorni, cariche di cesti. Esse, prima d'entrare in città, profittano di un cantuccio ombreggiato e al riparo dai curiosi, per cambiare le calzette e vestire scarpe pulite e decenti. La loro biancheria è sempre di bucato. Non azzarderebbero entrare in città con una macchia sui vestiti. L'ombra della guardia repubblicana è ancora appostata alle porte della città per impedire ai campagnuoli di presentarsi in arnese sconveniente. La finezza dei modi e la pulizia della persona sono ormai nelle abitudini dei campagnuoli ragusei.
Prima di abbandonare Ragusa, dobbiamo giudicarla dal punto di vista archeologico ed architettonico. A tale scopo profitteremo d'un cicerone illustre. Vi presento Edward Freeman, nostra vecchia ed ammirata conoscenza. Nessuno meglio di lui saprà spiegarci l'architettura locale di Ragusa. Riapro le sue stupende lettere archeologiche e ne prendo alcune pagine. Secondo lui, grazie a due edifizi municipali della caduta repubblica, Ragusa può esigere un posto primario nella storia dell'architettura. Molto più di quanto a prima vista si suppone, è rimasto illeso, dopo il terremoto del 1667, dell'antica città. […]. Se il viaggiatore, lasciando la strada principale, gira nelle strette viuzze che salgono verso la collina, troverà molti frammenti di architettura domestica, che certamente appartengono a tempi anteriori alla grande catastrofe del XVII secolo. Vedrà traccie di quel disastro in molti luoghi, sotto forma di frammenti murati qua e là irregolarmente" (pp. 270-276).
"Date al «palazzo ducale» di Ragusa le dimensioni e la posizione dell'edifizio che vi corrisponde a Venezia, e vedremo come la città marinara dalmata, che seppe restare indipendente nè inchinarsi mai al leone di San Marco, non le si sia chinata neppure in fatto d'arte. L'arcata veneziana non può, neanche per un momento, compararsi alla ragusea. […]. Nondimeno, non dobbiamo parlare del palazzo ducale, come se questo fosse assolutamente unico fra gli edifizi della città. Vi è un altro edifizio civico che dobbiamo salutare come un frutto più rimarchevole dello stesso genio che creò il suo vicino maggiore. Questa è l'antica dogana, oggidì sede delle autorità di finanza austriache. […]. Qualunque ne sia la data, l'opera è perfetta, incomparabilmente migliore del gotico italiano, o dello stile gesuitico cosmopolita. […]. La dogana ci ricorda il palazzo, il palazzo ci fa ritornare alle forme essenzialmente romanesche della chiesa francescana. Tutto ciò comprova l'esistenza d'uno stile raguseo, d'una tradizione romanesca non interrotta, la quale, se non potè completamente resistere all'invasione del pseudo-gotico d'Italia, mantenne però il suo posto di fianco all'invasore. Simili edifizi, ora tanto rari, ci fanno deplorare gli effetti del terremoto e sospirare i tesori d'arte che deve aver distrutto. Se Ragusa nei suoi primi tempi conteneva una serie di chiese proporzionate alle sue arcate civiche, e si fossero conservate, essa potrebbe pretendere ad un posto eguale a Roma, Ravenna, Pisa e Lucca" (pp. 278, 280-282).
"La conversazione dei ragusei, sempre arguta, diplomatica, geniale, vi affascina. Se parlano la loro madrelingua, la slava, ne fanno un poema linguistico, superando, nella perfezione delle forme grammaticali, tutti gli slavi del sud; se parlano italiano, li direste fiorentini. E quando parlano tra loro, adoperano un dialetto di prammatica, un amalgama graziosissimo di slavo e di italiano che vi incanta. Sono capaci di esprimere frasi intiere con parole italiane e accentuazione slava. E viceversa. Eccovi un esempio: «andiamo setando (dal verbo setati, passeggiare) fino a Bella Vista»" (p. 290).
"Un giorno presi a nolo un cavallo, e solo, senza guida, m'inoltrai sulla via che da Ragusa conduce e Trebinje. […]. Fermai un pastore, giovine, dall'aspetto franco e intelligentissimo. — Come ti chiami? — Giorgio. — Dove conduci il tuo gregge? — Qui vicino sul monte. — E non avete praterie? — Sono scarse e lontane. Fino a due anni fa, pascolavamo il nostro gregge nel vicino Montenegro. Ma ora, da quando l'Austria ha occupato il nostro paese, non ci andiamo più, per non pagare doppia tassa, una alle autorità austriache, l'altra alle montenegrine. […]. Lungo la strada, vecchi torrioni turchi, rotondi, albergano gendarmi austriaci: sono vedette, situate per lo più in posizioni dominanti. A mezza mattinata mi feci servire una colazione campestre in una povera capanna. I campagnuoli mancavano di tutto: non avevano un letto, nè stoviglie, nè il più rudimentale comfort: ma, appesa ad un chiodo, non mancava la gusla, con cui, nelle ore dei maggiori affanni, ritemprano la loro fibra battagliera" (pp. 295-296).