Cascate della Cettina
" — Ed ora pensiamo alla nostra gita a Duare — dissi al simpatico Checco. — Duare... a quest'ora! È mezzodì suonato, i cavalli non sono pronti; fino alla cascata ci vogliono cinque ore di cavalcata, ed altrettante, forse un po' più, per il ritorno. Ora è tardi, ci andremo domani. Si tratta, caro mio, d'una gita di 50 chilometri... e che strada!... Gli altri amici applaudirono in coro. Io solo ebbi da obbiettare alcunchè. Accesi la ventesima sigaretta, presi un atteggiamento solenne, domandai la parola e tenni il seguente discorso: — Signori miei, time is money, e voi tutti comprendete la lingua di Gladstone. Intuisco egregiamente le riserve dell'onorevole preopinante. Egli ha ragione: i cavalli non sono pronti; il cammino è difficile, la strada lunga, maledettissima. Però si tratta di vedere una delle più insigni meraviglie della natura, la cascata di Duare, in islavo Zadvarje, ed io sono talmente impaziente di ammirarla, che rinunzio al pranzo per mettermi tosto in viaggio, e vi invito, se siete patrioti, di fare altrettanto!... Era un ragionamento irresistibile, supremo, allarmante a dirittura. Quei simpatici si squagliarono senza salutarmi, lasciandomi solo come un eremita. Dopo pochi istanti comparve un servitore di casa Radman, per invitarmi ad uno spuntino. — Dove sono i miei amici? — gli chiesi. — Fanno colazione in fretta e in furia, signore" (p. 178).
Per recarsi da Almissa a Duare, si tratta di arrampicarsi — è la vera parola — sull'altipiano scosceso del Mossor e del Biokovo. La strada non è eccessivamente lunga: scarsi 25 chilometri. Ma, a piedi o a cavallo, si preferirebbe farne cento su strada meno accidentata, più cristiana, dove non si corra rischio ad ogni passo di rompersi l'unico osso del collo che Dio ci ha dato. Del resto, la natura, sempre provvida, non seduce il viaggiatore con false illusioni, poichè, appena usciti da Almissa, la strada, larga appena un paio di metri e fiancheggiata a sinistra dal torbido Cettina, è sormontata da macigni spettacolosi, sotto i quali dovete curvarvi, per non urtare contro essi la sede della vostra intelligenza. Si dovette scavare quel tratto di strada in un nudo macigno che continua erto, a precipizio, per un mezzo chilometro. Ad un punto, qualcuno della comitiva preferì scendere da cavallo, per evitare un bagno nel Cettina, casomai il cavallo fosse sdrucciolato con una zampa sull'angusto sentiero. Io rimasi sul mio bucefalo, ma pensai che si cominciava maluccio, se, fin da bel principio, la gita presentava tanti ostacoli. Ci precedevano, a piedi, i quattro poglizzani, con le loro piccole berrette rosse sulle ventiquattro, con la giacchetta sulle spalle, vivaci, nervosi, sveltissimi. Quando i cavalli andavano a passo, essi guadagnavano qualche centinaio di metri: quando si andava di trotto, quei valorosi affrettavano il passo, rimanendo sempre dinanzi ai cavalli. Vedremo in seguito con quanta energia essi sostengano simili marcie forzate: io li battezzai fin da principio: «piè alati montanari». […].
In certi punti, il fiume, sempre chiuso da alti dirupi, si allarga, forma oasi verdeggianti, vasti laghi dalle acque pure e tranquille. Allora l'illusione di trovarsi sulle rive di un lago è perfetta, ma di corta durata, chè, dopo pochi passi, il Cettina nuovamente s'ingola tra monti e voi vi trovate di bel nuovo tra aridi dirupi, con burroni pericolosi alla portata del vostro sguardo. Ho ammirato una posizione ove il fiume scorre attraverso una gola strettissima, non più larga di un metro; da lì se ne perde la traccia e soltanto dopo un paio di chilometri il fiume ricompare alla vostra visuale, più tortuoso, più capriccioso che mai. […]. Dopo un'ora e mezzo di cavalcata, per quanto rallegrata da parecchi incidenti piacevoli, si sentiva il bisogno d'una piccola sosta. Ce ne porse occasione una superba tenuta dei Radman, in una posizione deliziosissima, ombreggiata da alti pioppi, dove appunto il fiume, allargandosi, si trasforma in un'oasi fiorita: sono i molini di Visecchio. […]. Ci vollero ancora due ore di prodezze erculee, per raggiungere la piccola gubavizza. Così è chiamata la prima cascata del Cettina, vicino alle rovine del ponte Kraljevaz. Esce spumeggiante da una profonda gola di monti: è molto poetica, ma piccola, appena il preludio della cascata colossale. Dopo una mezz'ora, si poterono finalmente affidare i cavalli alle guide. Una scorciatoia scoscesa, di mezzo chilometro, ci trasse alla magnifica strada maestra mediterranea. Eravamo sull'altipiano sospirato. Passeggiando, si arrivò in pochi istanti al villaggio di Duare, sormontato dalle rovine di un vecchio castello. Non volli vedere nulla: mi premeva scoprire la cascata e solo mi misi a capo della comitiva, dirigendomi verso nord, attraverso un sentiero campestre, da dove la grande gubavizza — la cascata di Duare — coi suoi sordi rumoreggiamenti, attraeva come una sirena, il mio spirito.
Eccoci sulla balza di un burrone. In fondo ad esso un'apparizione imponente, indimenticabile: la cascata. L'acqua del Cettina scorre in una lunga e profonda gola rocciosa: è verdognola, qua e là spumeggiante, causa la velocità del suo corso. Si raccoglie tutta nella gola per ¡slanciarsi con maggior impeto. E si slancia, infatti, in un burrone profondo, maestosissimamente, come un ventaglio titanico di trine bianchissime. Si rompe fragorosamente tra balze, producendo un urlo continuo, spaventevole, disperato: il macigno sotto la cascata è tutto ravvolto in un'onda di schiuma e da quel baratro immenso si alza come un velo leggerissimo di pulvischio che ravvolge tutto il fenomeno e su cui i raggi solari, rifrangendosi, producono i più geniali effetti di luce: ora la cascata è rosea, ora argentea, ora dorata, ora azzurra. L'orecchio ne è spaventato, l'occhio affascinato. […].
Mentre mi allontanavo dalla balza, un paesano mi raccontò la leggenda della vergine che preferì gettarsi nel fiume, anzichè cedere alle brame amorose di un pascià turco. I genitori la cercarono alcuni giorni, ma poi seppero che il cadavere, nudo, della loro figliuola era stato veduto da un pastore scendere mollemente con la cascata in una gloria di candida schiuma. Fu l'amplesso di due innocenze. Per questo motivo, in certi racconti popolari, la cascata di Duare è chiamata poeticamente «della vergine». […].
Visitato il castello [di Duare], al primo piano d'un'osteria molto decente ci attendeva una colazione campestre: ova e prosciutto. Erano già le ore 5 pom. L'ascesa era stata superata senza sventure: rimaneva ancora la parte più difficile della gita, la discesa. […]. Cominciava ad imbrunire. Non eravamo ancora giunti a Visecchio, che era già notte fatta. Il panorama non potendo ormai più interessarci, si sentiva la stanchezza enorme della volata a Duare. E un buon tratto di strada pericolosa ci rimaneva ancora. Un po' a cavallo, un po' a piedi, sempre scortati da quei ferrei poglizzani, si arrivò verso le ore nove e mezzo nei dintorni di Almissa. […]. I quattro poglizzani ritornarono alle loro case, cantando!" (pp. 180-188).