Sette Castelli
"Quando Traù fioriva ed era solidamente fortificata, volgeva un'epoca in cui nessuno poteva ritenersi sicuro fuori le mura di una città, ammenochè non fosse padrone di una fortezza privata. Da codesto stato di cose trae origine il distretto delle Castella di Spalato, una riviera ridente che si estende da Traù al golfo dell'antica Salona ed è cosparsa, in riva al mare, di villaggi sorti intorno a castelli privati medioevali. La Serenissima non avrebbe tollerato una fortezza privata entro le mura d'una sua città; ma era lietissima che ne sorgessero nei dintorni, specialmente in certi paraggi dalmati, esposti alle meno gradevoli sorprese dei vicini d'oltremonte, o d'oltremare. Le cronache ricordano parecchi di quei castelli e parecchi villaggi circostanti, onde la Serenissima infeudò vari signori spirituali, o temporali. Presentemente non ne rimangono che sette: Castel Stafileo, Vecchio, Nuovo, Vitturi, Cambj, Ab-badessa, Suciuraz. Quest'ultimo confina già col territorio dell'antica Salona ed è ricco di frammenti ed iscrizioni di epoca romana. Il Mommsen ne riporta parecchie, importanti. Alcune vennero trovate sotterra e ciò dimostrerebbe che sul posto di Suciuraz sorgeva un sobborgo di Salona romana; altre invece sono murate nelle case moderne dei campagnuoli. Non esistono più il castello Dragazzo, costruito da Matteo Dragazzo nel 1543; il castello Quarco, fabbricato nel 1558 da Zuane Quarco, sul luogo chiamato anticamente Bile; il castello Lodi, eretto nel 1548 dai fratelli Lodovico e Zuane Lodi; il castello Ciga o Cega, del 1487; il castello Rosani, fondato da Michele Rosani nel 1482, per concessione del conte Francesco Ferro; il castello Andreis, innalzato nel 1600 dai fratelli Giovanni e Paolo de Andreis. Bimangono però, lungo la riviera, discendenti di quelle famiglie venete: i Cega, i de Andreis, i Vitturi ed altri sono anche oggidì un ornamento sociale delle Castella.
Tutto ciò sembra una fantasmagoria capricciosa della storia. Ed è facile immaginarsi quei paraggi all'epoca della loro floridezza feudale, quando i signorotti vi importavano da lidi lontani la nota del progresso, dell'eleganza, della civiltà. Tuttora le Castella presentano un grado avanzato nella scala dell'etnografia dalmata. Non solo trovate in ogni paesello un nucleo di famiglie civili, agiate, istruite, ma il popolo stesso della campagna, l'elemento slavo indigeno, attesta, col suo contegno pubblico e domestico, di aver profittato del contatto coi signori dell'epoca passata. Sono urbani e cortesi, vestono sempre decentemente e si circondano di certi agi famigliari, ignoti a quelli del montano. Oltre che per queste qualifiche morali, i castellani, specialmente le castellane, emergono per le loro prerogative fisiche. I tratti del loro volto sono delicatissimi e non vi sorprenda incontrare talvolta paesane dalle forme scultoree, vere matrone venete. Da ciò i maligni deducono che i feudatari veneti abbiano, più o meno legalmente, infuso del loro sangue nell'elemento indigeno; ma io, non avendo documenti d'appoggio in proposito, preferisco supporre che la bellezza della plaga abbia influito sull'avvenenza fisica delle generazioni castellane, posteriori al secolo decimoquinto.
Non importa rivangare la storia d'ogni singolo castello. Per averne uno specimen, basta accennare a quella di Castel Vitturi. Venne costruito nel 1487, dai fratelli Girolamo e Nicolò Vitturi, per concessione del conte di Traù, Carlo de Pesaro. Era tutto fondato nel mare e congiunto alla terraferma per mezzo di un forte ponte levatoio, atto a sostenere la più pesante batteria. Venne costruito a spese di quella nobile famiglia, ma all'erezione delle mura, intorno alla villa, concorse il tesoro della Serenissima con alcune centinaia di ducati. Presentemente, di quella famiglia, esistono due rampolli, vegeti ed amabilissimi, i conti Rade e Simeone, i quali, scartabellando talvolta nell'archivio di casa, riescono a trovare, e a far pubblicare, documenti rimarchevoli che illustrano la storia generale della repubblica veneta, o qualche episodio del suo dominio in Dalmazia.
Tranne i frammenti dell'epoca veneta, le Castella non porgono nulla di notevole in linea d'architettura classica. Più notevole, anzi rinomatissima, è la plaga tropicale su cui sorgono. La primavera v'è quasi perpetua. Riparata a nord dall'alto Kozjak e dai suoi dolci pendii che, dalle colline di Salona, si estendono verso ovest, fino alla valle di Bosiljina, quella riviera si rispecchia in un vasto lago, aperto soltanto verso mezzogiorno. Ed è naturale che vi allignino il lauro, l'aloe, la vite, il carrubo, il fico e la palma. Difficile immaginarsi una zona più mite, una campagna più florida, una vegetazione più rigogliosa. Sia che ammiriate le Castella dal cassero di un piroscafo, o le attraversiate in vettura, esse, coi loro dintorni, vi trasportano in un angolo di terra promessa. Notoriamente, il vino delle Castella dalmate gode fama invincibile nel commercio d'Europa. Lo si vende prima che le uve maturino. Negozianti ed agenti, specie francesi, se lo disputano accanitamente. È un vino prezioso da taglio, perchè robusto, denso, saporito, ricco di colorito. Tradisce facilmente lo straniero, col suo sapore delicato e ingenuo. Se ne bevete due soli bicchieri, senza esserne abituati, le orecchie, col loro ronzìo eloquente, vi avvertono che avete commesso un'imprudenza, e il mondo vi si presenta tosto sotto le più rosee parvenze.
Mi soffermai a Castel Suciuraz. A memoria d'uomo era un piccolo villaggio di miseri pescatori. Costoro gettarono le reti alle ortiche e divennero agricoltori, allettati dalle prerogative agricole delle loro terre. Ed ora è un villaggio florido, ove incontrate campagnuoli danarosi che formano la nobiltà finanziaria dell'epoca modernissima. Uno di questi potè lasciare al suo unico figlio, morto testè a Spalato, un patrimonio d'un milione di fiorini.
Picchiai alla villa del conte Francesco Cambj, mia carissima e vecchia conoscenza. Sapevo che lo avrei trovato a Suciuraz, dove stava regolando alcuni affari privati, concernenti il patrimonio della sua aggraziata consorte. I due coniugi erano occupatissimi. Nella loro casa era un andirivieni incessante di campagnuoli. Non sapevo spiegarmene la causa, di primo acchito. — Sai — mi disse l'amico Franetto — siamo in settimana santa, ed è abitudine antica che, di questi giorni, i coloni e i debitori portino al loro padrone il regalo di Pasqua: uova, un agnello, ecc. — E voi li ricambiate? — Certamente, con riso, baccalà, una focaccia, e così via. Qualcuno resta a pranzo. In generale, sono giornate in cui si regolano pure le partite pendenti coi coloni. Lo stesso avviene a Natale. Anche allora i coloni e i debitori si fanno vedere, portandoci prosciutti, o altri regali di stagione. Evidentemente, codesta costumanza è un rimasuglio degli ordinamenti feudali che si conservano, quasi nella loro integrità, in quei paraggi. Il regalo di Pasqua e di Natale non ha un valore intrinseco: è piuttosto l'atto d'omaggio del colono verso il padrone. Ed ho osservato che talvolta il colono col suo regalo neanche si fa vedere dal padrone che se ne sta al primo piano: lo porta al secondo piano e lo consegna semplicemente ai servitori di casa, indi se ne va. Ad un tratto udimmo madama Cambj inveire, adiratissima, contro il suo cantiniere. Quasi ci spaventammo. Che cosa era mai successo? — Ho detto e ripetuto al cantiniere di non dare oggi ai coloni bevanda, ma vino puro, e del migliore. Egli trasgredisce i miei ordini, ed io intendo che i nostri coloni ritornino oggi contenti alle case loro, perbacco! Con padroni tanto umani e democratici, i campagnuoli delle Castella appena s'accorgono che per essi vige tuttora il sistema feudale sotto l'ipocrita forma del «diritto colonico»" (pp. 95-99).