Traù
"Rientriamo in un canale, chiamato di Zirona, perchè formato dalle due isole omonime — Zirona grande e piccola — e la terraferma, e, dopo breve tratto ci si presenterà il porto Saldone, uno dei più giganteschi di Dalmazia, lungo circa 10 miglia marittime. Nel suo angolo più remoto ad ovest, un gruppo compatto di case, una piccola città insulare, sormontata da molti campanili: è Traù. Se fosse possibile spopolare, per un istante, quella città dai paesani dei dintorni e dai morlacchi del montano che vi affluiscono, essa apparirebbe all'esploratore come un sogno dell'epoca passata feudale, come una miniatura di Venezia.
Cinta di mura, Traù sorge sur [sic] un'isola minuscola, e però si comprende che, avendo dovuto sfruttare avaramente quel breve spazio, le sue vie sieno anguste e tortuose, con vòlte oscure, con archi, con mille altri indizi d'una città medioevale. Se non sapessimo che in altre città di Dalmazia, dalle vie altrettanto ristrette, vivono esseri umani, ci parrebbe impossibile che i traurini nelle loro case possano respirare. Da due soli punti si vede un po' di orizzonte aperto: dalla marina e dalla piazza del Duomo. Una bella riva circonda la città tutt'intorno. […]. Delle mura venete si veggono ancora molte tracce, principalmente ai lati della porta che conduce alla terraferma. Quella porta stessa offre una singolarità stranissima: un cipresso alto solo un metro, ma rigoglioso, nato in una fessura dell'architrave tra due macigni, ricopre quasi tutto il leone alato di San Marco. I traurini più vecchi lo ricordano sempre così, ed affermano che i loro avi non lo ricordavano altrimenti. Il popolino, per spiegare in qualche modo quel fenomeno botanico, lo attribuisce ad un miracolo, e lo chiama «il cipresso di San Giovanni». In cima alla porta, una statua di s. Giovanni benedice ai suoi traurini. […].
Per vedere tutte le insigni antichità di codesta città bizzarra, sapevo che avrei dovuto rivolgermi ad un cicerone amabilissimo, il di cui nome figura nelle prefazioni delle opere del Jackson e di altri insigni illustratori della Dalmazia. È il conte Gian Domenico Fanfogna-Garagnin, figlio di nobilissima ed antica famiglia traurina, oriunda veneta. Eccoci sulla piazza del duomo, fiancheggiata da tre edifizi classici: il palazzo comunale, la loggia — ambedue di origine veneta — e la cattedrale. — Come vede, il palazzo comunale subì recentemente qualche ristauro — m'avvertì il conte. Ahimè, si volle anche restaurare, anzi rifare, due dei tre stemmi veneti che lo adornavano. Ma i moderni sono un attestato eloquente della povertà artistica dei nostri tempi. Mentre lo stemma antico, con ricco e maestoso fogliame, sembra fuso, i due nuovi, coi loro rilievi timidi e meschini, sembrano eseguiti da un tagliapietra. Più ammirabile, come snellezza architettonica, è la loggia veneta, oggidì completamente abbandonata. È piccola, ma un vero gioiello. Internamente, un tavolo di pietra; e, a ridosso della parete orientale, un quadro in pietra, dedicato al leone alato, rappresenta la Giustizia. Che deliziosa apparizione! Vi pare d'udire la voce solenne di giudici austeri che emanino i loro verdetti; vi par di vedere la folla di liberi cittadini che assista alle deliberazioni di quell'areopago venerando. […]. — Andiamo!... Ecco la più grande magnificenza di Traù: il nostro duomo. La cattedrale, infatti, si presenta come un monumento ammirabile, la di cui importanza architettonica si intuisce subito, la si comprende, rimanendone estasiati. L'esterno è del più puro, del migliore e più finito stile italiano romanesco. Il maestoso ed in pari tempo elegante campanile a torre — uno dei due che dovevano ornare il tempio — presenta invece forme dello stile gotico-veneto: è quindi di un'epoca alquanto posteriore, e finisce in istile del rinascimento. — Superbo! — esclamai, affascinato da quella magnificenza architettonica. — Ammiri un po' l'eleganza di quelle finestre bifore dei piani superiori della torre — soggiunse il mio grazioso cicerone. — Peccato — osservai — non sia stata eretta anche l'altra torre! […].
Adesso visiteremo — mi disse — altre due chiese importanti. […]. Giunti ad un certo punto, il conte tirò il campanello d'una casa. Si affacciò alla finestra una donna. — Chi è?... — Apra, desidero mostrare a questo signore alcunchè. Entriamo nel cortile d'una casa vecchia, appartenente ai Cippico, i Cepiones romani. In mezzo al cortile, un superbo parapetto di cisterna, con ornati squisitissimi. Bisognava vederlo, perbacco! Eccoci dinanzi ad una chiesa diroccata, un modello notevole di stile romanesco, con un portale stupendo, sormontato da un rosettone artistico. — È cadente — mi spiega il conte; — è la famosa chiesa dell'Abbazia di San Giovanni Battista. La vogliono demolire, capite! — Come a Zara — feci io — demolirono la chiesetta di San Vito che il celebre Freeman dichiarò un modello perfetto, in piccolo, della disposizione bizantina genuina. — Sono barbarie imperdonabili... — Dica profanazioni a dirittura..." (pp. 85-91).
"— Avete trovato il leoncino alato, col libro chiuso? — mi chiese il comandante del piroscafo, quando ritornai a bordo. — Certo, e ne indovinai il significato: esso rimonta all'epoca del dominio francese, e il libro chiuso simboleggia la fine della Serenissima. Vi pare? — Sono del vostro avviso. È strano, del resto, che un inglese, anni or sono, abbia pel primo avvertito quel leoncino veneto: i traurini non sapevano che esistesse.... — Ora lo sanno, e sanno pure che è un oggetto raro, forse unico in tutti i territori dell'ex-repubblica" (p. 94).